Marco Boato - attività politica e istituzionale | ||||||||||||||||
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Trento, 10 maggio 2013 «È possibile vivere il rapporto tra la memoria e le nostre azioni attuai senza essere condizionati né dal rancore né dall’oblìo»: queste parole sono state pronunciate da Umberto Ambrosoli, in occasione della morte di Giulio Andreotti e della sua uscita dall’aula della Regione Lombardia in occasione della commemorazione dello statista, scomparso il 6 maggio. Lui è il figlio di Giorgio Ambrosoli, assassinato nel 1979 quando era il liquidatore della banca privata Italiana dl Michele Sindona, una oscura figura di finanziere che aveva avuto stretti rapporti con Andreotti stesso e che finì suicida (o suicidato non si è mai saputo con certezza) in carcere in Italia, dove era stato estradato dagli Usa. In questi ultimi giorni i quotidiani si sono riempiti dl articoli su Andreotti (presumibilmente già predisposti, considerata la sua lunga malattia e la prevedibile morte imminente), nei quali i lati «oscuri» della sua figura politica sono spesso prevalsi sugli aspetti storici, che riguardano la sua attività come uomo di Stato e di governo, assai meno come uomo di partito (quella Dc nella quale non ricoprì mai incarichi di vertice). Nella mia lunga esperienza parlamentare, sono sempre stato all’opposizione del governi da lui presieduti, da lui sostenuti o di cui faceva parte come ministro. Eppure l’immagine emersa in questi giorni (salvo che da parte degli ex-Dc, per ragioni ovviamente comprensibili, anche se in vita i contrasti interni erano stati talora feroci tra i vari personaggi e le varie Correnti) mi è sembrata riduttiva e inadeguata. Ha fatto bene il presidente della repubblica Giorgio Napolitano a consegnare agli storici un giudizio definitivo e più equilibrato. Sembra su consiglio dell’allora monsignor Montini, grazie ai rapporti nella Fuci, gli universitari cattolici, nell’immediato dopoguerra (rapporti strettissimi che riguardavano anche Aldo Moro), fu prescelto giovanissimo dal presidente del consiglio Alcide Degasperi come collaboratore prima e come sottosegretario alla presidenza poi. Andreotti non ebbe la statura politica e istituzionale dello statista trentino, ma quella iniziale esperienza lo ha fatto entrare fin da giovane nel cuore dello Stato e delle sue istituzioni. E lo ha segnato poi per tutta la vita, in un ambiente romano ancora fortemente condizionato dal «clerico-fascismo, (basti ricordare la fortunatamente fallita «operazione Sturzo» del 1952, che Pio XII e padre Lombardi volevano imporre a Degasperi) e dalla continuità degli uomini e degli apparati statali, che erano sopravvissuti — all’insegna della «continuità dello Stato» — al regime mussoliniano, alla Resistenza, al referendum che abolì la monarchia e introdusse la repubblica (2 giugno 1946) e anche alla «rottura» determinata dall’Assemblea costituente e dall’approvazione della nuova Costituzione repubblicana. Non c’è dubbio che la vecchia Dc (non solo Andreotti), in chiave anticomunista, avesse mantenuto per decenni un rapporto ambiguo tra molti personaggi siciliani e la mafia, con cui già gli americani avevano collaborato in occasione dello sbarco in Sicilia. E non c’è dubbio che, nei decenni della «guerra fredda», la divisione del mondo in blocchi contrapposti abbia fatto della fedeltà «atlantica» un baluardo insuperabile, spesso anche prevalente sulla fedeltà «repubblicana». Tutto questo è vero, e segna non solo la personalità dl Andreotti, ma anche quella di tutti i principali esponenti Dc dell’epoca. Ebbi lunghi colloqui con Palo Emilio Taviani, da colleghi al Senato, su questi aspetti, essendo stato Taviani a lungo prima ministro della difesa e poi ministro dell’interno e prima ancora capo dei partigiani «bianchi» nella sua Genova. Mi sembra riduttivo «leggere» Andreotti solo in questa chiave. Quando lo conobbi personalmente la prima volta, dal 1979 al 1983, era appena finito il suo quinto governo, dopo gli anni della «solidarietà nazionale» con I’appoggio esterno del PCI di Enrico Berlinguer. In quei quattro anni (ottava legislatura) Andreotti ricoprì solo il ruolo di presidente della commissione esteri della Camera e fece di quella «postazione» parlamentare, e non governativa, un luogo privilegiato per affrontare tutte le principali crisi mondiali, a cominciare da quella medio-orientale. Fu lui all’inizio degli anni ‘80 a invitare in Italia per la prima volta Yasser Arafat (che io poi incontrai più volte, l’ultima nel 2002 a Ramallah) e a farlo parlare all’lnterparlamentare nella sede di Montecitorio, suscitando grande scandalo internazionale, essendo all’epoca Arafat considerato solo un «terrorista» palestinese. Fu ancora lui, all’inizio degli anni ‘90 (quando presiedeva il suo sesto governo), a inviare alla commissione stragi (di cui ero stato uno dei promotori e di cui facevo parte) il primo «esplosivo rapporto su «Gladio», organismo clandestino fino ad allora rimasto coperto dalla più assoluta segretezza «atlantica». Si immagina sempre Andreotti che «copre» i segreti del potere. Ma in quella vicenda — e non a caso poco prima, nel 1989, era caduto il muro di Berlino ed era finita la «guerra fredda» — fu lui a «scoprire» la natura di quella organizzazione segreta, nata in chiave anticomunista alla fine degli anni ‘40 e mai rivelata fino a quel momento (si era parlato solo di «super-Sid», il servizio segreto militare, nella pubblicistica precedente). Rivelo un piccolo segreto. Quando alla commissione stragi, a Palazzo S. Macuto, arrivò il plico riservato di Andreotti, il presidente Libero Gualtieri lo aprì e ne rimase sconvolto dalle rivelazioni. Lo richiuse e lo rispedì alla presidenza del consiglio. Come ufficio di presidenza della commissione ci riunimmo immediatamente e diffidammo Gualtierl (che durante la guerra aveva operato con i servizi segreti inglesi) a far immediatamente ritornare il «rapporto» su Gladio. Lo fece e l’allibito Andreotti (una commissione d’inchiesta che si era rifiutata di ricevere quanto il Parlamento aveva chiesto e lui aveva fatto!) ce lo restituì, non senza avere un po’ «addomesticato» le rivelazioni più clamorose, che suscitarono il disappunto anche del presidente della repubblica Francesco Cossiga, il quale di «Gladio» si era segretamente occupato ancora quand’era stato sottosegretado alla difesa negli anni ‘50. Dunque, in questo caso — di enorme importanza istituzionale — Andreotti non aveva affatto oscurato i segreti dell’Italia, mentre chi doveva indagare (come poi del resto facemmo per anni), la commissione stragi, aveva avuto un presidente spaventato dalla tivelazione degli «arcana imperii». Ancora durante la «guerra fredda» e l’obbligo della fedeltà «atlantica» Andreotti, allora ministro degli Esteri, fu a fianco di Craxi, presidente del consiglio, nella drammatica vicenda di Sigonella, quando i carabinieri italiani furono mandati a circondare i militari americani per impedirgli di violare la sovranità del suolo italiano. Forse questo episodio gli americani non lo hanno mai dimenticato... Al capo opposto della Sicilia, dove Andreotti ha affrontato da senatore a vita la sua «via crucis» giudiziaria nell’arco dl un decennio, c’è il nostro Trentino-Alto Adige/Südtlrol. Proprio a partire dalla collaborazione istituzionale con Alcide Degasperi (l’accordo Degasperi-Gruber è del 1946 ed è il fondamento internazionale dell’autonomia speciale, ben prima dello Statuto del 1948). Giulio Andreotti non ha piu cessato in tutta la sua vita politica di mantenere un rapporto strettissimo con la nostra Specialità, costituzionalmente fondata sull’articolo 116 della Carta fondamentale. Ne ha seguito tutte le vicende, ne ha compreso e sostenute le richieste, dal «Pacchetto» del 1969 al secondo Statuto del 1972, dalle innumerevoli norme di attuazione fino alla «quietanza liberatoria» concessa dall’Austria nel 1992, per chiudere definitivamente la vertenza aperta con i due clamorosi ricorsi all’Onu del 1960 e 1961. Di tutto questo sui giornali nazionali, in occasione della sua morte, non si è fatto il minimo cenno, ma si tratta dl uno dei meriti principali di uno statista pur controverso e discusso. Uno statista e un politico che, nella sua vita, ha spesso privilegiato le piccole tattiche quotidiane rispetto alle grandi strategie lungimiranti. Ma, per quanto riguarda l’autonomia speciale di questa terra, Giulio Andreotti ha saputo guardare lontano e ha saputo coltivare invece una visione strategica che, insieme ad Aldo Moro finché è stato in vita, ha permesso di uscire da una crisi drammatica e epocale, contribuendo ad aprire un’era di stabilità e di convivenza. Marco Boato
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